sabato 8 giugno 2013

Despentes, puttane e femminismo: tre anni dopo

Perché quando lessi King Kong Girl, Virginie non mi disse nulla di nuovo, per quanto mi riguarda, ma il mio materiale mentale era ancora grezzo, aveva spigoli da limare, diversi particolari ancora da sistemare e definire. Un po' di lavoro, in questi tre anni, è stato fatto. 
Meno aderente al mio pensiero di allora è ciò che ho elaborato sul discorso della prostituta come lavoro scelto di propria volontà, all'epoca incentrato sulla virtuale "risposta" alla fantomatica Cristina, puttana di professione, brano estratto da un libro della De Gregorio contro cui (non proprio l'espressione esatta) mi infervorai con un livore che adesso mi fa sorridere.
http://appuntofralerighe.blogspot.it/2011/01/ripensamenti.html
Sono una mia vecchia amica, posso capire cosa mi spinse a percorrere certi sentieri e a scrivere determinate righe; capisco cosa mi spinse a non leggere oltre (o in realtà vi lessi, ma preferii voltarmi dall'altra parte) per poi cadere nella provocazione con tutte le scarpe. Alla fine colsi più o meno tutto. Ciò che mi fece paura era quel mondo che in Cristina cercava conforto e fuga dalla banalità, quel mondo che costruisce di sé un'immagine di austera perfezione nascondendo sotto il tappeto le proprie disfunzioni, anche trasversalmente alla classe sociale, trasversalmente al sesso, perché non sono solo gli uomini quelli che fan finta di non vedere ciò che non va nella propria vita, rifugiandosi altrove. Ecco di cosa avevo paura, e avevo ragione. Ne ho paura tuttora, ma il terrore che mi attanagliava all'epoca era quello di essere uno di quelli ingranaggi rotti di cui Cristina parla, e di cui si sente superiore, complice un certo grigiore che mi gravava sulle spalle quei tre anni fa, e complice anche questa "paura" delle nuove consapevolezze che forse pesa un po' su tutti gli esseri umani. Non solo paura del nuovo, nel mio caso, ma paura che un velo di Maia possa scostarsi dinanzi ai miei occhi e farmi cambiare la percezione delle cose, facendomi capire che la realtà non è ciò che sembra, che ciò che pensavo vero non lo è, che la verità mi è lontana, che non la raggiungerò mai.
Non volevo scadere nell'introspezione, sebbene il mio personale momento storico vi si presti, tuttavia la premessa era necessaria, visto che ora la provocazione la colgo, e non ci casco più. 

Per continuare a credere che è tutto a posto, va tutto bene, le puttane devono restare segrete, commiserate, compiante e ben pagate. Così la macchina funziona.

Ecco, servizi. Tutti servizi che si potrebbero tranquillamente dare come una linea telefonica dedicata, una spesa a domicilio.
Però no, bisogna che lo facciano le mogli, le fidanzate: è il loro ruolo sociale. Le puttane servono a coprire le disfunzioni del sistema: le mogli alcolizzate e depresse, quelle che non ti rivolgono la parola se non per dirti dove hai messo le chiavi della macchina, quelle che non si tingono i capelli perché non gliene frega niente di piacerti, quelle che dormono fino a mezzogiorno poi vanno a fare shopping, quelle che si ammazzano di lavoro fuori tutto il giorno e la sera non sono carine, no, e meno che mai si fanno legare.

Quelli che mi dicono “povera ragazza lo fai per bisogno lo fai perché c’è gente come me che ti costringe, avresti diritto a un lavoro normale” mi fanno proprio incazzare.

Ed ecco la chiave per capire la rivendicazione del testo: ritratti di donne e ritratti di ruoli sociali associati al femminino, non necessariamente aderenti alla donna nella realtà del suo quotidiano, ma a cui sforzarsi di assomigliare, per non deludere le aspettative di nessuno, ad iniziare dalle nostre. Aspettative da cui Cristina si è emancipata grazie ad una bellissima parola che ho imparato in questi anni, una parola grande, carica di senso di libertà e di responsabilità e di dovere, e di dignità: autodeterminazione, la facoltà di operare scelte secondo la propria volontà e quella di nessun altro.
La chiave è nell'eterno dualismo del proprio ritratto idealizzato con cui la donna ha sempre dovuto misurarsi: angelo del focolare, relegata ad una dimensione domestica, protettiva ma bisognosa di protezione, che accudisce ma che è anche un po' stupida, fuori dal mondo com'è. Depositaria di tutte le umane virtù, contrapposta con il demone seduttivo e destabilizzante, sensuale e maligno, consapevole della propria sessualità; la strega dei sabba, della belladonna, delle ordalie e delle torture, colei che è impura, che sanguina cinque giorni al mese, che non è ammessa nella sinagoga se non in un settore a parte, che deve coprire i capelli col velo e i malleoli con la sottana. E' anche qui che opera la disfunzione se, giustamente, nel nostro essere umane non riusciamo a venire a capo dell'antitesi.

Rileggendo ciò che ho scritto su Despentes, è in questo oscillare insensato e contraddittorio che si colloca quella che io intendevo come una "ossessione per la sessualità" nel ritratto tipo della "femmina ribelle", che non comprendevo.
Ciò che non capivo era come potesse sposarsi la rivendicazione ad esser tutte puttane ("siamo tutte puttane" è uno degli slogan simbolo degli Slut Walk) con, questa volta senza virgolette, l'ossessione per la femminile nudità ammiccante presentata, ad esempio, nella pubblicità, e criticata dalle stesse donne che rivendicano il puttaneggiare. Non sono atteggiamenti identici?
Osservando con occhi più attenti i due fenomeni, però, si notano delle profonde differenze. Quello che in effetti, in un'analisi che potremmo chiamare femminista, viene criticato non è il puttaneggiare, ma il presentare il corpo, sempre lo stesso modello di corpo, come costruito in serie in una catena di montaggio, ad uso e consumo di un maschio sbavante, reiteratamente, senza proporre alternative ad una scenetta che diventa stereotipo, in cui la donna non è parte attiva, ma protagonista di teatrini in cui il ruolo sociale di sottomissione tradizionalmente attribuito alla femmina diviene il principe. Il puttaneggiare, la nudità femminile, il mostrarsi delle pubblicità sottolinea e rafforza il messaggio: "ecco qual è il tuo posto, ragazza; ecco come devi essere, ecco cosa devi fare: adeguati".
Ben diverso è il puttaneggiare di Cristina, che si incazza con chi la commisera, e fa bene, perché non rende giustizia ad un passo compiuto maturando una sua personale scelta. Le puttane non sono angeli del focolare mancati, non sono tutte povere donne sfruttate -immagine che ancora una volta riporta alla femmina vittimizzata, alla poveraccia da accudire, bisognosa di cure ed attenzioni- buttate in una strada contro la propria volontà (ecco ancora l'elemento di passività) e strappate al sogno di una casetta in cui spazzare e una nidiata di bambini a cui preparare la pappa, o magari, in una versione più moderna, strappate al sogno di un lavoro serio ed "onorevole".
Ce ne saranno, di puttane così, di donne che sognano questo, e mica fanno male; lungi da me nascondere fra le righe un giudizio morale "al contrario", avendo la presunzione di pensare che ogni donna, dentro di sé, nasconda il desiderio di battere su strada almeno una volta nella vita. Ma se a sentir parlare di una prostituta il tuo primo pensiero è di pietà o commiserazione, beh, stai decisamente sbagliando approccio, visto che è il caso di chiarire che si può non aver bisogno né dell'una né dell'altra, che potrebbe essere una scelta consapevole,  che ognuna si vive la propria sessualità come meglio crede; che ogni donna non è né angelo né diavolo, non è latrice di altissime virtù né apristrada verso un mondo di peccato e perdizione, non sugge sperma e non offre mele, e questa roba lasciamola ai miti di oltre tremila anni fa, o alle rappresentazione macchiettistiche di una certa letteratura (per carità, non sto denigrando né Dante né Tarchetti, ma fermiamoci un attimo a pensare che sono ritratti di donne tratteggiate da uomini, e a quanto la letteratura sia piena di questi ritratti e povera di caratterizzazioni di donne raccontate dalle donne stesse, e ancora a quanto questi ritratti potrebbero cambiare se visti con occhio femminile). Ogni donna è solo una donna, una persona, un essere umano, e basta (e ti pare poco).
In conclusione, fra le righe non era sottinteso un reale giudizio di merito verso chi sceglie di intraprendere una certa carriera rispetto ad un'altra, tuttavia ora riesco a carpire lo spessore di chi sceglie di abbattere il muro del ruolo sociale preconfezionato, dell'ordine naturale delle cose che "così devono essere", ma per quale volontà? Ho affermato che "le puttane per scelta mi fanno un po' schifo", rivendicando la mia libertà a provare disgusto. Non ho ancora capito il perché di questo schifo, ma mi sento orgogliosa di aver superato quello che a tutt'oggi considero un mio vecchio limite. Residuati bellici di un'educazione cattolica, o avvenuta per mano di persone con impostazione cattolica? Schizofrenia innata del contesto sociale in cui vivo nei confronti del corpo delle donne? Lo "schifo", perché? Perché la sessualità è per forza un atto che va accompagnato ad alti valori, sennò è troppo "sporco"? Che differenza fa lavorare con la vagina, con le mani, con la mente, è davvero così diverso? E se la risposta è "beh, sì", su quali basi arriva questo sì? Sulla base di uno status quo, perché che male fa ad una seconda persona la scelta di qualcuno di lavorare con il proprio corpo?
Non lo so, qual è il perché di quello schifo. Ma non importa. Ciò che mi importa è che io abbia imparato un'altra sfumatura della parola "autodeterminazione": perché lo schifo che io sono libera di provare nei confronti di una prostituta non può censurare la sessualità di nessun altro, non può essere il pretesto di una condanna morale. Il sesso in vendita non è un affronto alla dignità delle donne, perché questa non si basa sul modo in cui ognuna -e ognuno, perché il discorso è valido anche per gli uomini- decide di vivere la propria sessualità e vendere le proprie prestazioni. La sessualità di ognuno è variegata, e multiforme, e quella degli altri non è la mia.