Sono tre volte che provo a scrivere il resoconto delle letture del secondo mese del nuovo anno.
La prima ho fallito perché, a quanto pare, ho bisogno del libro da commentare qui, accanto a me, per ripescare tutti gli spunti avuti nel corso della lettura, per riacchiappare tutti i fili dei discorsi (sì, sarebbero "le fila"; ma ho pensato a me come novella Kurosaki Ichigo, che tra i mille bianchi fili delle anime riesce a trovare quello che gli serve; fili e righe tutto sommato hanno qualcosa in comune. Mi si perdoni il paragone molto pop). La seconda, perché queste sono cose che vanno fatte con calma, e tempo non ne ho mai. Almeno quello che serve a me. Ovvero una grossa, GROSSA quantità di tempo.
Torniamo su questo mondo, in particolare sulle circa 200 intense pagine di "Fenomenologia del Potere", alla fine delle quali mi sono potuta ritenere soddisfatta perché:
1) sono sempre più allenata a leggere e capire saggi. Un saggio di sociologia, dal nome così altisonante poi, non è proprio una lettura da ombrellone. Invece mi sono divertita e quasi per nulla annoiata.
2) è un ottimo saggio su cui ripensare. Ogni volta. Quasi sempre. Per cui, torna sempre a galla. E fa riflettere su qualsiasi stupidaggine ci troviamo a vivere.
Piccolo edit: quanto mi faccio schifo nelle introduzioni. Necessita di quel nonsoché di punta creativa che mi si allontana manco fossi un magnete al contrario. Questo è il motivo per il quale da liceale mi autonauseavo di sole analisi del testo nei compiti in classe.
La prima ho fallito perché, a quanto pare, ho bisogno del libro da commentare qui, accanto a me, per ripescare tutti gli spunti avuti nel corso della lettura, per riacchiappare tutti i fili dei discorsi (sì, sarebbero "le fila"; ma ho pensato a me come novella Kurosaki Ichigo, che tra i mille bianchi fili delle anime riesce a trovare quello che gli serve; fili e righe tutto sommato hanno qualcosa in comune. Mi si perdoni il paragone molto pop). La seconda, perché queste sono cose che vanno fatte con calma, e tempo non ne ho mai. Almeno quello che serve a me. Ovvero una grossa, GROSSA quantità di tempo.
Torniamo su questo mondo, in particolare sulle circa 200 intense pagine di "Fenomenologia del Potere", alla fine delle quali mi sono potuta ritenere soddisfatta perché:
1) sono sempre più allenata a leggere e capire saggi. Un saggio di sociologia, dal nome così altisonante poi, non è proprio una lettura da ombrellone. Invece mi sono divertita e quasi per nulla annoiata.
2) è un ottimo saggio su cui ripensare. Ogni volta. Quasi sempre. Per cui, torna sempre a galla. E fa riflettere su qualsiasi stupidaggine ci troviamo a vivere.
Piccolo edit: quanto mi faccio schifo nelle introduzioni. Necessita di quel nonsoché di punta creativa che mi si allontana manco fossi un magnete al contrario. Questo è il motivo per il quale da liceale mi autonauseavo di sole analisi del testo nei compiti in classe.
Benché tutto sommato non dica "niente di nuovo", l'analisi è interessante. I primi quattro saggi si propongono di illustrare le principali forme di potere individuate dall'autore: il potere d'azione (violenza), il potere strumentale (minacce e promesse), il potere d'autorità, quello dell'agire tecnico.
Seguono poi un altro paio di trattazioni riguardanti la stabilizzazione del potere, la sua formazione e la sua istituzionalizzazione.
Tutti i saggi avrebbero bisogno di essere discussi, non tanto per presentare antitesi o obiezioni, quanto perché si tratta di temi costantemente attuali, ottimo terreno su cui costruire chiacchierate anche al di fuori della carta. Particolarmente affascinanti ai miei occhi, però, sono risultate la prima e la terza delle forme di potere analizzate, ovvero il potere di offendere e l'autorità.
Per quanto riguarda il primo, è interessante parlare di come il potere di offesa sia correlato all'eliminazione dei limiti, in particolare ai limiti dati dall'inibizione (ma è vero anche il contrario: l'agire offensivo non ha limiti nel senso che non può essere "delimitato" a particolari cause e quindi non si sa di cosa possa essere reazione; l'agire violento può essere del tutto arbitrario). Tuttavia un limite dell'agire violento può essere ritrovato nel potere di uccidere, in quanto atto violento completo. Non si può andare oltre, è la massima compiutezza del potere violento. Questo limite "del" potere (un limite fisico ed intrinseco) può trasformarsi in, o per meglio dire, altro non è che un limite "al" potere. Innanzitutto perché ogni uomo è suscettibile di essere oggetto di potere d'annientamento, anche il suo detentore, afferma Popitz. E poi perché, c'è poco da fare, il detentore del potere di uccidere non può andare oltre all'uccidere; e qui entrano in gioco figure come i martiri, che superano quel limite oltre al quale il detentore non può arrivare: il martire mette a nudo l'incompiutezza di questa azione estrema, in quanto, nella sua accettazione della morte, espropria la decisione dell'uccisione al detentore del potere.
È una serie di passaggi molto raffinata.
Un'altro punto interessante nell'analisi del potere violento, ancora correlato all'eliminazione dei limiti (in realtà, tutto il discorso sull'eliminazione dei limiti sarebbe assolutamente degno di menzione), è come quest'eliminazione porti, attraverso la mediazione della facoltà dell'immaginazione, alle conseguenze dell'esaltazione e dell'indifferenza. Mi soffermo su quest'ultima, e sulla principale riflessione ad esso associata, in qualche modo incatenata anche al potere di creare dati di fatto. La capacità immaginativa umana non è solo in grado di creare nemici, ma è anche la facoltà di estraniarsi e rendere più facili azioni tenute normalmente sotto controllo da freni inibitori. Quindi poche cose più dell'indifferenza sono utili per l'agire violento. Con il progresso tecnico delle armi, lo sforzo immaginativo di estraniamento risulta sempre meno gravoso: adesso, afferma Popitz, "il nemico è un nulla [...] il nesso tra l'azione e le sue conseguenze diventa meno visibile e riconoscibile". E così basta premere un bottone per causare distruzione, e così uccidere è un gesto automatico, e così provocare il male è più facile del bere un bicchier d'acqua. Non c'è quasi nemmeno più bisogno della capacità di essere senza scrupoli. A seguito di queste affermazioni, c'è tutto un bel discorso sulla reciprocità e sull'impedimento del progresso tecnico nel campo degli armamenti.
"Tutto quanto detto si basa sulla supposizione che possa esser compresa sempre meglio la comunanza degli interessi vitali, che si possa cioè riconoscere che ormai la sicurezza può essere raggiunta solo come sicurezza nella reciprocità; che impedire innovazioni nel campo della tecnica delle armi dovrebbe essere un fine comune; che tutti gli interessati dovrebbero rinunciare a conferire al conflitto atomico una consacrazione superiore. Se si può pensare di raggiungere tutto ciò, anche la speranza che possa realizzarsi un ulteriore presupposto, forse quello decisivo, per la formazione dela fiducia non è vana: la speranza che potremmo imparare a tener presente il pericolo corso dalle vite umane al di qua e al di là dei confini come un tutto unico. Lo sterminio fulmineo con la violenza atomica, chiunque colpisca, è una catastrofe universale. Porta nel mondo un nuovo modo di uccidere e di essere uccisi che fa cadere tutti in una nuova situazione di pericolo. La convinzione emotiva che sia così forse aiuta a superare i limiti della nostra capacità di sbigottimento. Ciò che si augura non è l'uomo buono, ma una nuova forza della nostra capacità di immaginazione."
Bello (soprattutto nell'ultima frase) non tanto per i contenuti, quanto per gli ulteriori spunti di riflessione. Per carità, con tutto il cuore io me lo auspico, ma vedo difficilissimo un progresso tecnologico civile svincolato da quello militare, perlomeno nella società in cui mi ritrovo a vivere. Mi torna in mente il mio stimato prof. Marras e il Galileo di Brecht che amava tanto citare:
"Se gli uomini di scienza non reagiscono all' intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l' uomo.
E quando, coll' andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall' umanità.
Tra voi e l' umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale [...] Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo."
Bello per gli spunti politici, bello come punto di partenza, bello perché tanto altro potrebbe essere citato, bello perché chissà se davvero c'è un modo di risolvere il problema. Bello perché il discorso può tornare sull'argomento della coercizione, sulla fondazione dell'ordine, di un nuovo ordine, insomma, bello perché chissà di quanto altro si può parlare partendo da qui.
La trattazione dell'autorità è assolutamente da leggere, sia perché mi risulta difficile ricostruire la rete di tutto il discorso delle soggettività sociali e dei vincoli di autorità, sia perché è nella sua interezza che è degno di nota. Non voglio dilungarmi (verrebbe un discorso elefantiaco), solo accenno a quanto l'autorità, in quanto forza "influente", non necessariamente coercitiva, sia legata al riconoscimento sociale, in tutti i sensi: necessità del riconoscimento, dell'approvazione di azioni, comportamenti ecc. di chi subisce il potere da parte dell'autorità, ma anche necessità di riconoscimento (legittimazione della propria autorità) del detentore dell'autorità. Questo duplice rapporto è sempre presente in ogni forma di potere, ma a mio avviso è in questa che si fa più sottile ed essenziale. L'autorità "ha un'aura" invisibile, delicata da tenere in piedi.
Vorrei spendere qualche parola in più anche sulla minaccia, ma sarebbe un po' fine a se stesso. Come ho avuto già modo di spiegare, questo è un libro di interazione, di cui parlare, da utilizzare come fondamenta per analisi in cui però sarebbe utile l'intervento dell'altro per formulare discorsi compiuti.
Ringrazio chi me l'ha consigliato anche se ho avuto già modo di farlo, e a mia volta lo consiglio.
Seguono poi un altro paio di trattazioni riguardanti la stabilizzazione del potere, la sua formazione e la sua istituzionalizzazione.
Tutti i saggi avrebbero bisogno di essere discussi, non tanto per presentare antitesi o obiezioni, quanto perché si tratta di temi costantemente attuali, ottimo terreno su cui costruire chiacchierate anche al di fuori della carta. Particolarmente affascinanti ai miei occhi, però, sono risultate la prima e la terza delle forme di potere analizzate, ovvero il potere di offendere e l'autorità.
Per quanto riguarda il primo, è interessante parlare di come il potere di offesa sia correlato all'eliminazione dei limiti, in particolare ai limiti dati dall'inibizione (ma è vero anche il contrario: l'agire offensivo non ha limiti nel senso che non può essere "delimitato" a particolari cause e quindi non si sa di cosa possa essere reazione; l'agire violento può essere del tutto arbitrario). Tuttavia un limite dell'agire violento può essere ritrovato nel potere di uccidere, in quanto atto violento completo. Non si può andare oltre, è la massima compiutezza del potere violento. Questo limite "del" potere (un limite fisico ed intrinseco) può trasformarsi in, o per meglio dire, altro non è che un limite "al" potere. Innanzitutto perché ogni uomo è suscettibile di essere oggetto di potere d'annientamento, anche il suo detentore, afferma Popitz. E poi perché, c'è poco da fare, il detentore del potere di uccidere non può andare oltre all'uccidere; e qui entrano in gioco figure come i martiri, che superano quel limite oltre al quale il detentore non può arrivare: il martire mette a nudo l'incompiutezza di questa azione estrema, in quanto, nella sua accettazione della morte, espropria la decisione dell'uccisione al detentore del potere.
È una serie di passaggi molto raffinata.
Un'altro punto interessante nell'analisi del potere violento, ancora correlato all'eliminazione dei limiti (in realtà, tutto il discorso sull'eliminazione dei limiti sarebbe assolutamente degno di menzione), è come quest'eliminazione porti, attraverso la mediazione della facoltà dell'immaginazione, alle conseguenze dell'esaltazione e dell'indifferenza. Mi soffermo su quest'ultima, e sulla principale riflessione ad esso associata, in qualche modo incatenata anche al potere di creare dati di fatto. La capacità immaginativa umana non è solo in grado di creare nemici, ma è anche la facoltà di estraniarsi e rendere più facili azioni tenute normalmente sotto controllo da freni inibitori. Quindi poche cose più dell'indifferenza sono utili per l'agire violento. Con il progresso tecnico delle armi, lo sforzo immaginativo di estraniamento risulta sempre meno gravoso: adesso, afferma Popitz, "il nemico è un nulla [...] il nesso tra l'azione e le sue conseguenze diventa meno visibile e riconoscibile". E così basta premere un bottone per causare distruzione, e così uccidere è un gesto automatico, e così provocare il male è più facile del bere un bicchier d'acqua. Non c'è quasi nemmeno più bisogno della capacità di essere senza scrupoli. A seguito di queste affermazioni, c'è tutto un bel discorso sulla reciprocità e sull'impedimento del progresso tecnico nel campo degli armamenti.
"Tutto quanto detto si basa sulla supposizione che possa esser compresa sempre meglio la comunanza degli interessi vitali, che si possa cioè riconoscere che ormai la sicurezza può essere raggiunta solo come sicurezza nella reciprocità; che impedire innovazioni nel campo della tecnica delle armi dovrebbe essere un fine comune; che tutti gli interessati dovrebbero rinunciare a conferire al conflitto atomico una consacrazione superiore. Se si può pensare di raggiungere tutto ciò, anche la speranza che possa realizzarsi un ulteriore presupposto, forse quello decisivo, per la formazione dela fiducia non è vana: la speranza che potremmo imparare a tener presente il pericolo corso dalle vite umane al di qua e al di là dei confini come un tutto unico. Lo sterminio fulmineo con la violenza atomica, chiunque colpisca, è una catastrofe universale. Porta nel mondo un nuovo modo di uccidere e di essere uccisi che fa cadere tutti in una nuova situazione di pericolo. La convinzione emotiva che sia così forse aiuta a superare i limiti della nostra capacità di sbigottimento. Ciò che si augura non è l'uomo buono, ma una nuova forza della nostra capacità di immaginazione."
Bello (soprattutto nell'ultima frase) non tanto per i contenuti, quanto per gli ulteriori spunti di riflessione. Per carità, con tutto il cuore io me lo auspico, ma vedo difficilissimo un progresso tecnologico civile svincolato da quello militare, perlomeno nella società in cui mi ritrovo a vivere. Mi torna in mente il mio stimato prof. Marras e il Galileo di Brecht che amava tanto citare:
"Se gli uomini di scienza non reagiscono all' intimidazione dei potenti egoisti e si limitano ad accumulare sapere per sapere, la scienza può rimanere fiaccata per sempre, ed ogni nuova macchina non sarà fonte che di nuovi triboli per l' uomo.
E quando, coll' andar del tempo, avrete scoperto tutto lo scopribile, il vostro progresso non sarà che un progressivo allontanamento dall' umanità.
Tra voi e l' umanità può scavarsi un abisso così grande, che ad ogni vostro eureka rischierebbe di rispondere un grido di dolore universale [...] Così stando le cose, il massimo in cui si può sperare è una progenie di gnomi inventivi, pronti a farsi assoldare per qualsiasi scopo."
Bello per gli spunti politici, bello come punto di partenza, bello perché tanto altro potrebbe essere citato, bello perché chissà se davvero c'è un modo di risolvere il problema. Bello perché il discorso può tornare sull'argomento della coercizione, sulla fondazione dell'ordine, di un nuovo ordine, insomma, bello perché chissà di quanto altro si può parlare partendo da qui.
La trattazione dell'autorità è assolutamente da leggere, sia perché mi risulta difficile ricostruire la rete di tutto il discorso delle soggettività sociali e dei vincoli di autorità, sia perché è nella sua interezza che è degno di nota. Non voglio dilungarmi (verrebbe un discorso elefantiaco), solo accenno a quanto l'autorità, in quanto forza "influente", non necessariamente coercitiva, sia legata al riconoscimento sociale, in tutti i sensi: necessità del riconoscimento, dell'approvazione di azioni, comportamenti ecc. di chi subisce il potere da parte dell'autorità, ma anche necessità di riconoscimento (legittimazione della propria autorità) del detentore dell'autorità. Questo duplice rapporto è sempre presente in ogni forma di potere, ma a mio avviso è in questa che si fa più sottile ed essenziale. L'autorità "ha un'aura" invisibile, delicata da tenere in piedi.
Vorrei spendere qualche parola in più anche sulla minaccia, ma sarebbe un po' fine a se stesso. Come ho avuto già modo di spiegare, questo è un libro di interazione, di cui parlare, da utilizzare come fondamenta per analisi in cui però sarebbe utile l'intervento dell'altro per formulare discorsi compiuti.
Ringrazio chi me l'ha consigliato anche se ho avuto già modo di farlo, e a mia volta lo consiglio.